domenica 21 luglio 2013

(raccolti da terra) - letteralmente - n.3

Per la maggior parte i miei sogni sono sogni di pericolo. Se sto molto bene, sono sogni di avventure. Se sono disperata sogno rappresentazioni allegoriche della mia disperazione, e le metafore sono sempre elementari e perfettamente decifrabili. Se sono molto triste, sogno di fare cose che mi sono precluse, e per tutta la durata del sogno (che è intenso e dolcissimo e più reale della maggior parte delle cose che sento da sveglia) so benissimo che è solo un sogno, che finirà a un certo punto indipendentemente dai miei desideri e dalle mie azioni. So anche che quello che sto facendo, anche se lo faccio in sogno, è una cosa indebita. Quando sono molto triste faccio sogni realistici.

Però venerdì notte anche se ero triste ho sognato di avere un figlio, minuscolo, più piccolo di qualsiasi neonato io abbia mai visto, e che era fragile perché ammalato. Io non sapevo prendermi cura di lui, gli facevo battere la testa. Più avanti diventava un gattino, ma anche quello era troppo ammalato, le zampe erano strane e facevano male al cuore e io ero impotente. Ma poi diventava un uccellino, troppo piccolo per volare, fragile e ammalato e tutto il resto, ma io sapevo cosa fare e sentivo questa cosa immensa che era una sorta di amore più grande di me e dell’uccellino, e una responsabilità antecedente al mio amore ed ero infinitamente felice di sapere cosa fare, e di saperlo fare. Pensavo fosse un sogno di consolazione.

Poi invece, ieri mattina, passeggiando sotto casa ho visto questa cosa piccolissima saltellare tra le macchine, spaventata da ogni cosa, terrorizzata e irrimediabilmente nel posto sbagliato. Ho sempre conosciuto il dolore particolare dato dalla tenerezza, dalle cose troppo piccole e troppo fragili; le cose che rischi di rompere per disattenzione o per un moto crudele e irrazionale, o perché, semplicemente, non ce la fai più a sopportare quella cosa che brucia nel petto, e hai la tentazione di mettere fine alla paura e alla vertigine, farla finire. Ho cercato di spiegarla molte volte, questa cosa, il tormento della tenerezza, quello struggimento allarmato e dolce. Qualcuno l’ha capito.


Mi stava nel pugno socchiuso, mi stava nel palmo, beveva da un dito e ho pensato: per fortuna, per fortuna ho le mani abbastanza piccole.








domenica 14 luglio 2013

(frammenti) n.1

Qualcuno dall'appartamento di fronte sta strillando, un uomo che invoca il nome di una donna. Dura poco, passano minuti di silenzio e poi, dal nulla, ricomincia e dura ancora poco. Va avanti da ore.

Qualcosa in quelle urla mi atterrisce, per qualche motivo che non riesco a definire perché è un motivo che non voglio ricordare.

mercoledì 10 luglio 2013

(una descrizione) n.1

E poi dico mai più, mai più. Ma non è dato
che io sparisca oppure che mi annienti
per mia colpa e in tua assenza, dopo
lo scoppio la scia dell’onda
d’urto, il vuoto attonito, la polvere
mi inceppa. Ma sento ancora: e al cospetto del tuo sangue
potrei
facilmente
essere immortale.

Quante volte ancora può accadere? quando
ho sviluppato questa ruggine? chi mi ha inventata
invincibile, fatta di fame
insaziabile? Psicodramma del centro immobile
non mi disperdo
in schegge, sono inviolabile.

I fatti mentono, mentono
i lamenti, le minacce di morte
imminente.

Nel tuo passo che viene e accende
occasioni di immolazione, brilla
come un’insegna il punto
debole, richiamo (sirena
atroce di allarme oppure canto, promessa
di gioia – dalle acque ferme, malate) nel tuo restare
si innesca il mio cuore e batte -ticchetta-
e vorrei farmi crescere le braccia
per tenerti.

Pregherei, a essere ancora umana
e onesta, per sollevarmi. Sii coraggioso e strappami
alla culla, disarmami. Invece dico, Se te ne vai mi fermi
il cuore. Ma nel silenzio che precede e segue
il dramma sono svelata ordigno
nella terra, bella e automatica come
una mina: e vi dilania il passo
che vi allontana.

martedì 9 luglio 2013

(una precisazione)

Però quando sono felice sono felice davvero e
quando cado cado da posti altissimi e
immensi e dura così tanto e voi non sapete quanto
è durato, né le cose che ho visto.

Anche io posso non sapere tante cose: per esempio
non so ancora di essere completa.
Non sono capace di capirlo, né di impararlo
a memoria, e sento il dolore ad arti che non ho mai avuto.

Oppure: che la paura di morire si fa pesante e diventa
minaccia, fino a che mi piego e diventa desiderio e allora
io mi spezzo, e sopravvivo. L’ho fatto ogni giorno e non so ancora
– ad esempio – che posso farlo ogni giorno.

Non conosco cibo che non sia un precetto o una mattina
che non sia un agguato. Ogni orgasmo è un posto gelido
in cui respirare è imprudente, dove non esiste
la tua voce, e dove non puoi toccarmi.

Quindi, è ovvio, non so niente del sesso.
Fare la spesa è un atto di coraggio,
ogni carezza è coazione, immolazione
o giuramento. Non so niente del gioco

della caccia, né del tempo.
L'amore non mi ha mai chiamata a letto
ma solo a passeggiare sui dirupi
voi non sapete quanto orrore c'è nel vuoto

o la solitudine del bordo o il sollievo
di distogliere lo sguardo e che ogni volta
è una morte scampata per poco, non sapete cos'è
tornare: io non so il riposo.

E mi mette in mano coltelli e devo stringerli: da una parte
o dall'altra. Per questo non so niente
dell'amore e voi non sapete il mio amore
e che il coraggio,

– la prima volta lo sapevo bene
e la seconda lo sapevo meglio – tutto il coraggio

è questo: ci separa la linea delle fiamme, ma se faccio
un passo posso toccarti e allora dico: ti prego,
chiamami. E chiudo gli occhi e il resto è una consegna
della pelle al fuoco; il resto è conseguenza.

Per questo io non conosco la danza, la libertà
o la rinuncia. Non è colpa di nessuno, eppure
bisognerà vederlo: l'aria mi strappa la pelle
come se ne avessi altra e io non avrò mai il vostro

amore, e voi non avrete mai il mio stupore.

(raccolti da terra) n.2

Poi, io dico sempre di non poter scrivere se non di me stessa perché sono nata senza fantasia, non so inventare le cose, in realtà non so nemmeno come sia umanamente possibile dire qualcosa che non è mai stato, eppure basterebbe una passeggiata a Roma Est per rendere chiunque in grado di scrivere un racconto. 
Per esempio: una donna con la gonna lunga, il viso avvolto nelle bende come un ninja, che di notte fruga nel cassonetto alla ricerca di vestiti. Poi  comincia a parlare e si scopre che non è una donna, ma un uomo. Che è laureato in ingegneria, che ha un lavoro. Che le bende sono perché sai, il vicinato, mi vergogno. Che a casa sua c’è una fidanzata che dorme e lo aspetta. Che lui ha questa forma di feticismo: trovare vestiti da donna nella spazzatura e portarli in regalo alla sua ragazza. Che per questa ragazza va bene, va bene che lui stia fuori la notte a cercare vestiti per lei, va bene che lui li porti a casa perché lei li indossi, vanno bene le fughe notturne e vanno bene le bende, va tutto bene, per lei, che sta con lui da dodici anni e che ora dorme, e lo aspetta.