Per la maggior parte i miei sogni sono
sogni di pericolo. Se sto molto bene, sono sogni di avventure. Se sono
disperata sogno rappresentazioni allegoriche della mia disperazione, e
le metafore sono sempre elementari e perfettamente decifrabili. Se sono
molto triste, sogno di fare cose che mi sono precluse, e per tutta la
durata del sogno (che è intenso e dolcissimo e più reale della maggior
parte delle cose che sento da sveglia) so benissimo che è solo un sogno,
che finirà a un certo punto indipendentemente dai miei desideri e dalle
mie azioni. So anche che quello che sto facendo, anche se lo faccio in
sogno, è una cosa indebita. Quando sono molto triste faccio sogni
realistici.
Però venerdì notte anche se ero triste ho
sognato di avere un figlio, minuscolo, più piccolo di qualsiasi neonato
io abbia mai visto, e che era fragile perché ammalato. Io non sapevo
prendermi cura di lui, gli facevo battere la testa. Più avanti diventava
un gattino, ma anche quello era troppo ammalato, le zampe erano strane e
facevano male al cuore e io ero impotente. Ma poi diventava un
uccellino, troppo piccolo per volare, fragile e ammalato e tutto il
resto, ma io sapevo cosa fare e sentivo questa cosa immensa che era una
sorta di amore più grande di me e dell’uccellino, e una responsabilità
antecedente al mio amore ed ero infinitamente felice di sapere cosa
fare, e di saperlo fare. Pensavo fosse un sogno di consolazione.
Poi invece, ieri mattina, passeggiando sotto
casa ho visto questa cosa piccolissima saltellare tra le macchine,
spaventata da ogni cosa, terrorizzata e irrimediabilmente nel posto
sbagliato. Ho sempre conosciuto il dolore particolare dato dalla
tenerezza, dalle cose troppo piccole e troppo fragili; le cose che
rischi di rompere per disattenzione o per un moto crudele e irrazionale,
o perché, semplicemente, non ce la fai più a sopportare quella cosa che
brucia nel petto, e hai la tentazione di mettere fine alla paura e alla
vertigine, farla finire. Ho cercato di spiegarla molte volte, questa
cosa, il tormento della tenerezza, quello struggimento allarmato e
dolce. Qualcuno l’ha capito.
Mi stava nel pugno socchiuso, mi stava
nel palmo, beveva da un dito e ho pensato: per fortuna, per fortuna ho
le mani abbastanza piccole.
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